I Giambi

 

Abbiamo visto quale fu l’occasione concreta da cui presero vita i Giambi: un periodo tormentato della biografia oraziana, in cui la letteratura diventa sfogo, terapia all’ansia e all’insoddisfazione.

I critici moderni titolano quest’opera Epodi, ma bisogna osservare che se questa definizione è ormai entrata nell’uso ed è antica, non ha alcun riscontro nell’opera oraziana; anzi, più volte il poeta definisce le sue poesie iambi.

Tra l’altro, la definizione di iambi usata da Orazio ha una ragione letteraria, ossia il riferimento ai modelli dichiarati dal poeta: i greci Archiloco e Ipponatte, autori di giambi, poesie dal ritmo martellante utilizzate per criticare gli avversari nella maniera più aspra possibile.

Si racconta, ad es., che al poeta Archiloco era stata promessa in sposa Neobule; improvvisamente, però, Licambe, il padre della promessa sposa, annullò l’impegno; Archiloco, per vendicarsi, prima sedusse la sorella minore di Neobule, quindi pubblicò dei versi talmente diffamatori che, per la vergogna, Licambe e le sue figlie si impiccarono.

Gli studiosi moderni concordano nel ritenere l’episodio inventato,[1] ma l’aneddoto è comunque interessante perché ci fa capire a quale fama fosse legato il nome di giambo: una poesia al vetriolo, capace di condannare al suicidio i destinatari.[2]

Definire dunque, modernamente, epodi le poesie di Orazio, significa disperderne una caratteristica importante che l’autore vi attribuiva.

I Giambi di Orazio, sia chiaro, non contengono tutti il medesimo tasso polemico, basti pensare che la poesia proemiale è dedicata a Mecenate, l’amico più caro nonché protettore.

E tuttavia, nei diciassette testi di cui si compone l’opera, non mancano giambi nel senso più genuino del termine.

Vediamo dunque quali sono, in sintesi, i contenuti:

 

 

Giambo

Contenuto

Probabile data di composizione

I

Nell’imminenza della battaglia di Azio Ottaviano ha chiamato a sé Mecenate. Orazio si chiede se debba seguire l’amico o rimanere in casa a coltivare i suoi studi. La risposta è quasi scontata: sarà al fianco dell’amico ovunque egli andrà.

32-31 a. C.[3]

II

Un certo Alfio prima elogia la serena vita di campagna; poi, nel primo giorno utile, investe in speculazioni finanziarie il proprio denaro.

Incerta

III

Orazio augura a Mecenate di mangiare aglio, così che la sua ragazza ne rifiuti i baci e gli dorma a debita distanza.[4]

Certamente posteriore al 38 a. C.[5]

IV

Un liberto arricchito ostenta modi signorili, suscitando disprezzo nei veri nobili.

37-36 a. C.[6]

V

Canidia[7], con un rito da messa satanica, uccide un bambino, con le cui viscere preparerà un filtro d’amore[8].

Incerta

VI

Orazio invita un malparliere[9] a rivolgersi contro di lui: saprà rispondergli per le rime e, come Archiloco e Ipponatte[10], costringerlo a suicidarsi per la vergogna.

Incerta

VII

Il poeta rimprovera ai concittadini la corsa verso una nuova guerra civile e individua la causa di questa follia nel fratricidio di Remo, sul cui sangue maledetto sorge Roma.

Sicuramente anteriore al 39 a. C.[11]

VIII

Uno dei giambi più sboccati di Orazio. Il poeta rimprovera a un’amante insistente la perdita della giovinezza e del conseguente fascino femminile, senza i quali può eccitarlo solo con un rapporto orale.

Incerta

IX

Invito a Mecenate a brindare alla recente vittoria militare, e un’esaltazione di Ottaviano, superiore a Scipione Africano.

Probabilmente primi giorni di settembre del 31 a. C.[12]

X

Un propempticon[13] parodico. Mevio[14] è sul punto di imbarcarsi; Orazio gli augura di poter naufragare e che la sua carcassa priva di vita venga divorata dagli uccelli acquatici.

Incerta

XI

Da tre anni è finita la storia con Inachia e Orazio è ora innamorato del giovane Licisco; inutile che gli amici tentino di dissuaderlo. Potrebbe fargli cambiare idea solo un nuovo amore.

Incerta

XII

Il poeta sconsiglia una donna[15] dal continuare a provarci: è vecchia, puzza, il sesso con lei è disgustoso. Viene il turno della donna, che lamenta sboccatamente l’impotenza di Orazio. 

Incerta

XIII

Bisogna godere la vita finché si è giovani, prima che arrivino la vecchiaia e la morte; anche il saggio Chirone diede tale consigliò ad Achille prima della partenza per Troia.

Incerta[16], ma certamente fra i primi a essere composti dal poeta

XIV

Orazio non può accontentare Mecenate e completare il libro dei Giambi: è innamorato di Frine e non riesce a pensare ad altro.

Sicuramente posteriore al 38 a. C.[17]

XV

Il poeta è stato lasciato da Neera, a cui rimprovera le promesse di amore eterno. Ma il nuovo amante di Neera, si pentirà: presto sarà lasciato anche lui.

Incerta

XVI

La minaccia di una nuova guerra civile fa desiderare a Orazio di abbandonare l’Italia e raggiungere le mitiche isole fortunate, dove la terra produce frutti senza essere arata e le greggi pascolano sicure.[18]

41-40 a. C.[19]

XVII

Canidia, lasciata dal poeta, è ricorsa alla magia; il nostro la prega di smettere, ma la donna risponde severa che Orazio deve arrivare a desiderare la morte.

Incerta

 

 



[1] I nomi dei protagonisti sembrano, infatti, inventati ad arte: Neobule, in greco, significa “che cambia opinione”, quasi un senhal piuttosto che un nome vero e proprio, in quanto alluderebbe alla scelta di non mantenere fede alla promessa di matrimonio. Quanto a Licambe, si tratta del nome di un personaggio fisso delle feste in onore del …. Quindi anche in questo caso non un nome vero e proprio.

[2] Anche per Ipponatte, l’altro modello dichiarato di Orazio, si racconta un episodio analogo. Un certo Bupalo si sarebbe suicidato a seguito della campagna denigratoria condotta contro di lui da Ipponatte a suon di giambi.

[3] Quindi, cronologicamente, uno degli ultimi composti dal poeta, poco prima della pubblicazione dell’opera. La sua collocazione come epodo proemiale si spiega, però, con l’intento elogiativo oraziano che a Mecenate, suo protettore oltre che amico, dedicherà tutte le proprie opere.

[4] Probabilmente l’antefatto del giambo è un invito a pranzo di Mecenate in cui le pietanze non erano state particolarmente gradite da Orazio.

[5] Infatti l’amicizia con Mecenate è già evidentemente consolidata, dato il carattere sornione con cui Orazio gli si rivolge.

[6] Negli ultimi versi dell’epodo si parla di pirati e schiavi e due scoliasti antichi, Porfirione e lo pseudo-Acrone ritenevano che oggetto dello scherno di Orazio fosse un tale Menodoro, ex schiavo arricchito, che militò con Sesto Pompeo contro Ottaviano, cambiando peraltro spesso schieramento per opportunismo. Combinando questi due fatti, la data di composizione del giambo dovrebbe collocarsi negli anni 37-36 a. C., segnata dai preparativi alla battaglia di Nauloco.

[7] Questo nome compare più volte nei Giambi. All’indirizzo http://www.intratext.com/IXT/LAT0532/_IDX002.HTM puoi trovare il testo di tutti i Giambi oraziani con lista delle frequenze e motore di ricerca interno. Cliccando, ad es., su Canidia ti apparirà non solo il numero di occorrenze, ma anche la frase in cui il nome è presente.

[8] Ovviamente l’episodio è iperbolico. Orazio è stanco delle pressioni di questa ex amante e gliene dice di tutti i colori.

[9] Per noi anonimo.

[10] Di Archiloco si raccontava che avesse costretto al suicidio Licambe e le sue figlie, Ipponatte avrebbe costretto al suicidio Bupalo

[11] Verosimilmente qui Orazio si riferisce al bellum Perusinum, anche se qualche studioso pensa addirittura al periodo ateniese del poeta e ai preparativi per la battaglia di Filippi. Quello che sembra certo è che al momento in cui Orazio scrisse questo giambo non fosse ancora entrato in rapporto d’amicizia con Mecenate e Ottaviano.

[12] Il poeta accenna, infatti, a una storica vittoria che è facile identificare con la battaglia di Azio del 2 settembre 31 a. C.

[13] Nella poesia greca il propempticon era un carme in cui si augurava il buon viaggio a un amico.

[14] Nemico letterario di Virgilio

[15] Forse la Canidia altrove insultata, forse un’altra donna per noi sconosciuta.

[16] Già Carducci aveva ipotizzato che la depressione manifestata da Orazio in questo carme fosse dovuta alla sconfitta dell’esercito di Bruto e Cassio a Filippi. Se l’intuizione fosse vera, allora il giambo andrebbe collocato addirittura al periodo ateniese dell’autore, proprio a ridosso di quella sconfitta e sarebbe la più antica poesia di Orazio giunta fino a noi. Alcuni critici moderni hanno ripreso l’ipotesi carducciana, avvalorandola con alcune imperfezioni a livello metrico, che testimonierebbero l’inesperienza del poeta e di conseguenza l’antichità del testo.

[17] Confronta nota al giambo III.

[18] È il topos del paradiso terrestre, che ricorre in svariate culture antiche.

[19] Diversi indizi collocano la poesia al tempo del Bellum Perusinum fra Ottaviano e Lucio Antonio, che fece temere a molti il ritorno in Italia dei tempi tristi delle guerre civili.

 

Giambo VI

 

In questo giambo Orazio accusa un poeta, per noi sconosciuto, di essere un vigliacco e un opportunista. Vigliacco perché scrive versi contro chi non è in grado o non vuole rispondergli; opportunista perché è come un cane che prima abbaia contro qualunque passante, ma poi prende cibo da chiunque glielo getti. Provi a prendersela con Orazio che saprà rispondergli per le rime e comportarsi come i suoi predecessori, Archiloco e Ipponatte.

Il riferimento a questi due personaggi è particolarmente importante, perché significa che Orazio prende esplicitamente come modelli di riferimento i due più grandi rappresentanti della poesia giambica greca.

Da un punto di vista formale, sono da notare alcune forme arcaiche che impreziosiscono ed elevano lo stile.

 

 

Giambo VI

 

Quid inmerentis hospites vexas, canis
      ignavos[1] adversum lupos?
quin[2] huc inanis[3], si potes, vertis minas
      et me remorsurum[4] petis?
nam qualis aut Molossus aut fulvos[5] Lacon,
      amica vis pastoribus,
agam per altas aure sublata[6] nivis[7]
      quaecumque praecedet fera;
tu[8], cum timenda voce complesti[9] nemus,
      proiectum odoraris cibum.
cave, cave[10], namque in malos asperrimus
      parata tollo cornua,
qualis Lycambae [11]spretus infido gener
      aut acer hostis Bupalo[12].
an si quis atro dente me petiverit[13],
      inultus ut[14] flebo puer?
 

Perché te la prendi con chi non se lo merita, cane vigliacco con i lupi?[15]

Perché non le porti qui le tue vuote minacce, se sei capace, e te la prendi con uno come me che si vendica a morsi?[16]

Io sono come un [17], come un [18],

sono la forza amica dei pastori,[19]

qualunque sia la belva, la inseguirò sulla neve alta, con le orecchie dritte;[20]

tu … dopo che hai riempito la foresta di temibili latrati, ti metti ad annusare il cibo che ti hanno gettato.[21]

Attento! Attento! Contro i farabutti ho pronte delle corna appuntite,

sono come il genero[22] disprezzato dal bugiardo Licambe, come l’aspro nemico[23] di Bupalo.

Pensi, forse, che se qualcuno mi morderà aspramente mi metterò a piangere come un bambino incapace di vendetta?

 



[1] La desinenza in –os del nominativo maschile singolare di II declinazione è presente anche nella lingua greca classica, oltreché nel latino arcaico, dunque è indoeuropea; nella lingua della prosa contemporanea a Orazio avremmo ignavus. Da noare anche l’enjambement tra canis e ignavos.

[2] Perché non.

[3] La desinenza in –is dell’accusativo plurale di III declinazione si trova in molti poeti arcaici, da cui Orazio la riprende. Nel latino parlato avremmo avuto inanes.

[4] Intraducibile in italiano, infatti questo participio futuro dà, in una sola parola, l’idea che a ogni verso offensivo dell’avversario, corrisponderà immediatamente e inesorabilmente la risposta di Orazio. Nella nostra lingua siamo costretti a usare una perifrasi che, inevitabilmente, perde in stringatezza.

[5] Di nuovo la desinenza arcaica del nominativo di II.

[6] Aure sublata: ablativo assoluto.

[7] Per nives, nuovamente la desinenza arcaica dell’accusativo plurale di III.

[8] In posizione enfatica. Orazio è un cane da caccia disposto a inseguire la preda a qualsiasi costo, il suo interlocutore, invece…

[9] Forma sincopata per complevisti. Anche le forme sincopate, oltre a quelle arcaiche, sono abbastanza frequenti in poesia, normalmente dovute a ragioni metriche.

[10] L’anafora rende l’avvertimento ancora più minaccioso. Da notare che Orazio utilizza non a caso l’imperativo cave, insistendo nel paragone poeta=cane; infatti in un famoso mosaico pompeiano si trova l’espressione cave canem, attenti al cane.

[11] Lycambe infido, dativo d’agente in dipendenza da spretus.

[12] Dativo di svantaggio.

[13] Si petiverit, protasi di periodo ipotetico di I tipo. Petiverit è futuro anteriore. L’apodosi è costituita dalla domanda retorica del verso successivo, col futuro semplice per la legge dell’anteriorità.

[14] Inultus ut = ut inultus, l’inversione dell’ordine delle parole è un’anastrofe.

[15] Orazio sostiene che questo poeta prenda facilmente di mira persone che non amano rispondergli per le rime; come un cane che abbaia per strada a semplici passanti, ma se poi incontra dei lupi feroci, non ci prova nemmeno per paura delle conseguenze.

[16] Orazio non è come i suoi amici: lui sa mordere (poeticamente, per rimanere nella metafora dei cani e dei lupi).

[17] I Molossi erano un’antica popolazione dell’Epiro che utilizzava in battaglia dei cani di grosse dimensioni, quelli che oggi, dal loro nome, chiamiamo appunto cani molossi. In parole povere Orazio sta continuando nella metafora e avvisa l’avversario: non solo sa mordere, ma sa farlo bene, come un cane da combattimento.

[18] Altro cane di grossa taglia utilizzato sia come cane da difesa, che per la caccia, o come cane da combattimento.

[19] Uno degli usi più comuni delle razze di cani appena citate, la difesa delle greggi; fuor di metafora, Orazio proteggerà i suoi amici come i molossi difendono i propri pastori.

[20] L’altro uso tipico dei cani di grossa taglia era nelle battute di caccia. In questo caso la metafora oraziana significa che il poeta non si stancherà di scrivere versi contro l’avversario finché questi non si dichiarerà sconfitto.

[21] L’avversario di Orazio è proprio quel che si dice “can che abbaia non morde”. Infatti, continua a latrare, ma poi non disdegna di mangiare qualunque cosa gli venga gettata. Insomma, oltreché vigliacco, è anche opportunista.

[22] Archiloco.

[23] Ipponatte.