Le Odi 

Le Odi contengono le poesie oraziane più note, quelle che ne hanno decretato la fama nei secoli.

Si tratta di una raccolta di poesie per la verità molto diverse tra loro, segno anche della maturazione del nostro.

L’opera è infatti composta da 103 poesie, divise in quattro libri che rispettano l’ordine cronologico di composizione.

Nelle prime poesie Orazio ha quasi il chiodo fisso della morte.

Siccome siamo destinati a diventare vecchi e morire e, dopo, di noi non rimarrà nulla, tanto vale approfittare di tutte le occasioni che la vita offre, perché certe gioie si possono godere per un periodo limitato di tempo.

Come tutti i poeti della precarietà[1] qui, ovviamente, Orazio fa riferimento soprattutto alle gioie dell’amore.

Per inciso, è esattamente l’opposto della propaganda augustea.

È stato già notato come sia Orazio che Virgilio, i due intellettuali più organici al regime augusteo, furono i più distanti da esso nella vita privata.

Augusto era un uomo d’ordine e il suo governo tentava di restaurare non solo la pace sociale, ma anche i vecchi valori, in primo luogo la famiglia.

La legislazione augustea punta molto su questo, incentivando le unioni stabili e la procreazione di almeno tre figli, in una società in cui i divorzi erano all’ordine del giorno e la crescita demografica era seriamente in crisi.

Virgilio cantò Enea, il prototipo del buon pater familias, Orazio celebrò il regime nel carmen saeculare. Eppure entrambi scelsero di essere single per tutta la vita. Niente mogli né figli.

Nel tempo, comunque, com’è naturale, le idee di Orazio cambiano e così anche i contenuti delle sue poesie.

Nelle prime il tema centrale è rappresentato dal tempo che trascorre inesorabile, mentre nelle ultime si fa pressante un tema nuovo: la capacità della poesia di rendere immortali.

Il giovane Orazio intuiva la morte e voleva godere la vita, il senex Orazio, tira le somme della propria esistenza, cerca un modo per non morire del tutto (il non omnis moriar, dell’ultima ode del III libro) e lo trova nella poesia[2].

 

Libro I

 

 

Odi, I, IX

Uno dei carmi più belli di Orazio.

È inverno, fuori c’è la neve; il poeta è in casa col camino acceso, guarda in lontananza il monte Soratte, e invita Taliarco a mescere vino e  ravvivare il fuoco per combattere il freddo pungente.

Al panorama esterno, con i rami degli alberi carichi di neve e i fiumi congelati per il freddo, fa da contrasto il sereno ambiente domestico, riscaldato dal fuoco alto nel camino.

 

Nessuno, afferma il poeta, può conoscere il futuro, solo gli dei possono prevederlo, perciò invita il giovane Taliarco ad andare a ballare, a far festa e a godere le dolci schermaglie fra innamorati.

 

Presto, prima che i capelli diventino bianchi.

 

Odi, I, 9[3] 

 

Vides ut alta[4] stet niue candidum[5]
Soracte nec iam sustineant onus
     siluae laborantes[6] geluque
     flumina constiterint[7] acuto?[8]
 

Dissolue frigus ligna super foco               5
large reponens atque benignius[9]
     deprome quadrimum Sabina[10],
     o Thaliarche[11], merum[12] diota[13].

Permitte diuis cetera, qui simul
strauere[14] uentos aequore feruido               10
     deproeliantis[15], nec cupressi
     nec ueteres agitantur orni.

Quid sit futurum cras, fuge quaerere[16], et
quem fors dierum cumque dabit, lucro
      adpone nec dulci
[17]s amores
     sperne, puer, neque tu choreas,               15

donec uirenti[18] canities abest
morosa. Nunc et Campus et areae
     lenesque sub noctem susurri
      composita repetantur hora,

nunc et latentis proditor intumo[19]               20
gratus puellae risus ab angulo
     pignusque dereptum lacertis
     aut digito male pertinaci.

Vedi come si staglia, imbiancato dalla neve alta,

il Soratte[20] né ormai le fronde

affaticate ne sostengono il peso e i fiumi

sono immobili per il gelo acuto?[21]

 

Taliarco[22], sciogli il freddo

ponendo legna abbondante sul fuoco e

mesci generosamente dall’anfora vino sabino[23] puro, invecchiato quattro anni.[24]

 

Il resto lascialo agli dei, che in un istante

atterrano i venti che sul mare ribollente

si danno battaglia, né i cipressi

né gli orni antichi si agitano più.[25]

 

Che sarà domani, evita di chiederlo, e

qualunque giorno darà la sorte,

segnalo in attivo[26] e i dolci amori

non disprezzare, ragazzo, né le danze

 

finché è lontana dalla tua giovinezza la canizie

che rallenta. Ora si cerchino il Campo e le piazze[27],

i tenui sussurri notturni

nell’ora pattuita,

 

ora il piacevole risolino che tradisce

la ragazza nascosta dietro un angolo

e il pegno strappato dalle braccia

o da un dito che finge resistenza[28].

 

 

Odi, I XI

Forse la più famosa poesia oraziana, quella in cui viene usata l’espressione carpe diem.

Il poeta si rivolge a una ragazza, di nome Leuconoe[29], e le chiede in tono perentorio di non interessarsi del futuro.

Noi non possiamo sapere se vivremo ancora decenni o se moriremo domani.

Perciò è inutile fare progetti a lungo termine, tanto vale prendere ogni cosa come viene e considerarla un guadagno per se stessa.

Godere ogni singolo istante: questa è l’unica cosa sensata da fare.

 

 

Odi, I, 11[30]

 

Tu [31]ne quaesieris,[32] scire nefas,[33] quem mihi, quem[34] tibi[35]
finem di dederint[36], Leuconoe[37], nec Babylonios
temptaris[38] numeros[39]. Vt melius quicquid erit pati[40]!
Seu pluris[41] hiemes[42] seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare               
5
Tyrrhenum[43], sapias[44], uina liques et spatio breui
spem longam[45] reseces. Dum[46] loquimur, fugerit inuida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero[47].

Non chiedere (è proibito) quale fine a me, quale a te abbiano dato gli dei, Leuconoe, e non interrogare gli oroscopi Babilonesi[48]. Molto meglio sopportare qualunque cosa verrà.

Sia che Giove ci abbia riservato molti inverni, sia l’ultimo, che ora spossa il mare Tirreno su opposti scogli, sii saggia, versa vino e taglia con una piccola misura un lungo spazio. Mentre parliamo, è già fuggito il tempo invidioso: cogli l’attimo, fidati meno possibile del domani.

 

 

Odi, I, XIII

Una poesia “anomala” per il primo Orazio, che solitamente inneggia alla fugacità dei rapporti.

Qui invece il poeta, triste perché la sua Lidia ha una relazione con un altro, le ricorda che l’amore vero non è quello passionale, ma quello che dura una vita ed è sciolto solo dalla morte.

 

Odi, I, 13

 

 Cum[49] tu, Lydia, Telephi[50]
ceruicem roseam, cerea Telephi
     laudas bracchia, uae, meum
feruens difficili bile tumet iecur.
      Tunc nec mens mihi nec color
certa sede manet[51], umor et in genas[52]               
5
     furtim[53] labitur, arguens
quam lentis penitus macerer ignibus[54].
     Vror[55], seu tibi candidos
turparunt[56] umeros inmodicae[57] mero[58]               
10
     rixae, siue[59] puer furens
inpressit[60] memorem[61] dente labris notam.
     Non, si me satis audias[62],
speres perpetuum dulcia barbare[63]
      laedentem oscula, quae Venus               
15
quinta parte sui nectaris[64] imbuit.
     
Felice[65]s ter et amplius
quos inrupta[66] tenet copula nec malis
     diuolsu[67]s querimoniis
suprema[68] citius[69] soluet amor die.               
20

Lidia … quando tu

esalti il collo roseo di Telefo, le candide

braccia[70] di Telefo, maledizione!,

il mio fegato, ribollendo, si gonfia di bile astiosa.

A quel punto né la mente rimane salda

né il colore, il pianto scivola

di nascosto sulle guance, dichiarando

come io sia consumato da lente fiamme.

Brucio! Sia che, per il vino,

i frequenti litigi abbiano rovinato le tue candide spalle, sia che il ragazzo abbia lasciato impresso sulle tue labbra il segno dei morsi furiosi.

Dammi  retta, almeno un po’, non

sperare che sempre ti feriscano selvaggiamente i dolci baci, che Venere

imbevve della quinta parte del suo nettare.

Felici tre e più volte

coloro che lega un’unione ininterrotta e il cui amore, non tormentato da maligne recriminazioni, sarà sciolto troppo in fretta nel giorno estremo.

 

 

Libro II

 

Nel secondo libro, insieme al consueto tema dell’amore e della fugacità della vita, si fa pressante un altro questione non di poco conto, tipica dell’età in cui il nostro poeta visse e verrebbe di dire non solo quella: la ricerca del lusso e della notorietà.

Orazio invita spesso singoli personaggi o l’intero pubblico del suoi lettori ad accontentarsi del poco che è veramente necessario per vivere. Se lo si possiede si è ricchi a sufficienza.

Il vero guadagno non è nella ricchezza, ma nella felicità dell’anima e quest’ultima si raggiunge più semplicemente lontano da quegli ambienti in cui gli uomini si affrettano sgomitando a diventare il più ricco possibile.

Tipicamente epicureo anche questo tema, infatti l’ideale di Epicuro era il lathe biosas, vivi nascosto, cioè vivi insieme a pochi amici con cui condividi un progetto di vita, lontano dalla frenesia e dalla povertà intellettuale che caratterizza la gente comune.

Uno degli esempi di quell’aurea mediocritas, di quella ricerca del senso della misura che caratterizza non solo la produzione poetica oraziana, ma anche la riflessione teorica.

Odi, II, XV

In questa poesia Orazio invita i suoi concittadini a non cercare la ricchezza a tutti i costi, ma a ritornare al modo di vivere degli antichi romani che si accontentavano del poco perché preferivano che la ricchezza fosse destinata al bene comune.

In un’epoca di cementificazione selvaggia, iperbolicamente, Orazio esordisce dicendo che ormai manca la terra da coltivare per colpa dei ricchi che costruiscono megaville con piscine olimpioniche, tutto a beneficio di se stessi, senza preoccuparsi del bene comune.

 

Odi, II, XV[71]

 

Iam pauca[72] aratro iugera[73] regiae[74]
moles[75] relinquent, undique latius
     extenta[76] uisentur[77] Lucrino[78]
     stagna lacu[79] platanusque caelebs

euincet ulmos[80]; tum uiolaria[81] et               5
myrtus et omnis copia narium[82]
     spargent oliuetis odorem
     fertilibus domino priori[83];

tum spissa ramis laurea[84] feruidos
excludet ictus. Non ita Romuli[85]               
10
     praescriptum et intonsi[86] Catonis
     auspiciis ueterumque norma.

Priuatus illis census erat breuis,
commune[87] magnum; nulla decempedis[88]
     metata priuatis opacam               
15
     porticus excipiebat Arcton[89],

nec fortuitum spernere caespitem
leges sinebant, oppida publico
     sumptu iubentes et deorum
     templa nouo decorare saxo[90].               
20

 

Tra un po’ i palazzi principeschi lasceranno

pochi ettari di terra per l’aratro, dappertutto

appariranno piscine più grandi

del lago Lucrino e il celibe platano

sarà migliore degli olmi; allora le viole,

il mirto e ogni genere di fiore odoroso

spargeranno profumo al posto degli uliveti

fertili all’antico padrone;

allora una corona spessa di rami escluderà

i torridi raggi. Non così fu prescritto

dagli auspici di Romolo e del barbuto Catone

e dalle abitudini degli antichi

Per quegli uomini la ricchezza privata era piccola,

grande quella comune; nessun portico

misurato con decempedi private accoglieva l’ombra del Nord,

e le leggi non permettevano di disprezzare nemmeno la capanna di fortuna,

prescrivendo di decorare le città sol denaro pubblico e i templi degli dei con pietre nuove.

 

Libro III

In questo libro, cambia l’intonazione generale, è come se Orazio avesse perso il gusto del rapporto amoroso fugace, le effusioni sentimentali non sono più l’orizzonte privilegiato, ma i temi etici: il senso dell’equilibrio innanzitutto.

Non mancano peraltro poesie d’amore, ma con un tono diverso, come quella che segue.

Il libro, poi, si chiude con una delle poesie oraziane più famose, quasi fosco liana, in cui il tema centrale è la poesia che rende gli uomini immortali.

 

Odi, III, 9

Un Orazio inedito, sia dal punto di vista delle modalità narrative che della sostanza.

Dal punto di vista formale perché si tratta di una poesia mimetica, in cui cioè l’autore tenta di farci osservare il dialogo (una lite amorosa) avvenuto tra i due protagonisti dell’ode in presa diretta, come se fossimo presenti sulla scena mentre essa si svolge.[91]

E dal punto di vista contenutistico perché la protagonista femminile, Lidia, afferma di essere innamorata del poeta, tanto da accettarne anche le peggiori sfumature caratteriali.

Come vediamo, dunque, nelle opere di Orazio non c’è solo il motivo del carpe diem, ma anche il desiderio di un amore grande, che duri una vita.

 

Odi, III, 9[92]

 

     'Donec gratus eram tibi
nec quisquam[93] potior[94] bracchia candidae[95]
     ceruici iuuenis dabat,
Persarum uigui rege[96] beatior.'
     'Donec[97] non alia magis               
5
arsisti neque erat Lydia[98] post Chloen[99],
     multi Lydia nominis,
Romana uigui clarior Ilia[100].'
     'Me nunc Thressa Chloe regit[101],
dulcis[102] docta[103] modos et citharae sciens,               
10
     pro qua non metuam[104] mori[105],
si parcent animae fata superstiti.'
     'Me torret[106] face mutua[107]
Thurini
[108] Calais filius Ornyti,
     pro quo bis[109] patiar mori,               
15
si parcent puero[110] fata superstiti.'
     'Quid si prisca redit Venus
[111]
diductosque iugo cogit aeneo[112],
     si flaua excutitur Chloe
reiectaeque patet ianua[113] Lydiae?'[114]               
20
     'Quamquam[115] sidere[116] pulchrior
ille[117] est, tu[118] leuior cortice[119] et inprobo
     iracundior Hadria[120],
tecum uiuere amem, tecum[121] obeam lubens[122].'

«Finché ti ero gradito

nessun giovane migliore di me, le braccia al candido collo gettava,

e fui più felice del re dei Persiani[123]

«Finché, di più, per un’altra non

bruciasti e Lidia non veniva dopo Cloe –

Lidia dal celebre nome –

fui più famosa di Ilia romana.»

«Adesso mi governa Cloe, la tracia,

esperta di dolci melodie, conosce la cetra;

per lei non temerei la morte,

purché il destino le risparmi la vita.»

«Mi fa divampare – reciproco fuoco –

Calaide, figlio di Ornito da Turi;

per lui due volte sopporterei la morte,

purché il destino risparmi il ragazzo.»

«E se tornasse l’antico amore,

unisse con giogo di bronzo noi due separati,

Cloe la bionda fosse reietta,

le porte riaprissero a Lidia allontanata?»

«È più bello di una stella, lui!

tu più incostante del sughero,

più facile all’ira del furioso Adriatico,

eppure io con te amerei la vita, con te volentieri morrei»

 

 

III, 30

Una poesia dall’intonazione foscoliana.

Orazio afferma di aver costruito per sé un monumento ben più duraturo delle piramidi: grazie alle sue poesie, infatti, egli si è guadagnato un posto fra i poeti di sempre, per aver portato nella poesia latina i contenuti e i metri della poesia eolica. Chiude, infatti, invitando la musa Melpomene a incoronarlo della corona d’alloro dei grandi poeti.

Il motivo della superiorità della poesia rispetto alle statue o comunque ai monumenti, era già in Pindaro, a cui certamente Orazio si ispira.

 

Odi, III, 30[124]

 

Exegi monumentum aere[125] perennius
regalique[126] situ[127] pyramidum altius[128],
quod[129] non imber edax[130], non Aquilo[131] inpotens[132]
possit diruere aut innumerabilis
annorum series et fuga temporum.               
5
Non omnis[133] moriar multaque[134] pars mei
uitabit Libitinam[135]; usque[136] ego postera[137]
crescam laude recens[138], dum Capitolium[139]
scandet cum tacita[140] uirgine[141] pontifex[142].
Dicar[143], qua[144] uiolens obstrepit Aufidus[145]               
10
et qua[146] pauper aquae Daunus[147] agrestium
regnauit populorum[148], ex humili[149] potens
princeps[150] Aeolium[151] carmen ad Italos
deduxisse modos[152]. Sume superbiam[153]
quaesitam meritis[154] et mihi Delphica[155]               
15
lauro cinge uolens[156], Melpomene[157], comam.

Ho costruito un monumento più duraturo del bronzo e più eccelso delle faraoniche piramidi,

non la pioggia divoratrice, non  l‘aggressivo vento del nord lo potranno distruggere o l’innumerevole serie degli anni e la fuga del tempo.

Non morirò del tutto, una gran parte di me sfuggirà a Libitina; crescerò nel tempo  di fama sempre nuova, mentre il pontefice sale il Campidoglio con una vergine silenziosa.

Si dirà - dove tumultua il violento Aufido

e dove Dauno, povero di acqua regnò

fra i popoli agresti – che io per primo, potente pur di umile origine, ho cantato un carme eolico nei ritmi italici. Melpomene, prendi la superbia cercata con i meriti e volentieri cingi il mio capo con l’alloro.

 

Libro IV

Il libro IV si apre con una preghiera oraziana a Venere. Il poeta la implora di non farlo più innamorare, perché non ha più l’età per essere ricambiato, del resto anche il legno si indurisce dopo i cinquant’anni.

Né ormai ama il vino e cingersi di fresche corone il capo.

Eppure, è innamorato di Ligurino (il poeta non ha mai fatto differenza tra amore etero e amore omosessuale), non riesce a pensare ad altro, e piange.

Altri scrittori antichi – Solone in primis - avevano affermato che una volta giunti a tarda età, quando le forze del fisico scemano inesorabili, si sarebbero perciò dedicati col massimo impegno alla costruzione del bene comune, ponendo a servizio della società la maturità dell’esperienza.

Ideale di vita chiaramente stoico, infatti in voga anche nella società romana dei tempi di Orazio.

Il nostro poeta, invece, preferisce legare la propria riflessione a un’altra corrente di pensiero – Mimnermo innanzitutto – secondo cui perduta la giovinezza, la vita riserva solo tristi angosce.

Contrariamente a quello che ci attenderemmo, però, dopo un simile incipit, le altre poesie del libro sono improntate soprattutto all’esaltazione del ruolo di pacificatore di Augusto e di se stesso come poeta dalla gloria futura inesauribile.

È questo uno degli aspetti apparentemente contraddittori notati dai critici: il repubblicano Orazio che a Filippi aveva combattuto contro Ottaviano in nome della democrazia, nel tempo è diventato uno dei cantori ufficiali del suo governo monarchico.

Non mancano in verità poesie “del carpe diem”, come la settima, ma si tratta di casi isolati che non danno comunque il tono generale del libro e sembrano più che altro esercitazioni di stile su temi consueti.

E non a caso il libro si chiude con l’ennesima lode di Augusto.

 

Odi, IV, 15

Non manca fra le odi il tema dell’incapacità, tutta oraziana, a narrare in maniera adeguata le grandi gesta proprie dell’epica. Più volte il poeta si scusa di questo suo modo di intendere la produzione poetica, ma egli preferisce senz’altro il corto respiro di una breve poesia che canti l’amore.

Qui, il tema dell’incapacità viene però compensato da un tema propriamente encomiastico: al tempo di Orazio non si possono narrare guerre di stampo epico, perché il mondo ha trovato la pace grazie ad Augusto.

 

Odi, IV, 15[158]

 

Phoebus[159] uolentem proelia me loqui
uictas et[160] urbes increpuit lyra,
     ne parua[161] Tyrrhenum per aequor
     uela darem. Tua
[162], Caesar[163], aetas

fruges et[164] agris[165] rettulit[166] uberes               5
et signa nostro restituit[167] Ioui[168]
     derepta[169] Parthorum superbis[170]
     postibus et uacuum duellis[171]

Ianum Quirini clausit[172] et ordinem[173]
rectum euaganti[174] frena[175] licentiae[176]               
10
     iniecit emouitque culpas[177]
     et ueteres reuocauit artes[178]

per quas Latinum[179] nomen et Italae
creuere uires famaque et imperi
     porrecta maiestas ad ortus[180]               
15
     solis ab Hesperio[181] cubili.

Custode[182] rerum Caesare non furor
ciuilis aut uis exiget otium,
     non ira, quae procudit enses
     et miseras inimicat urbes.               
20

Non qui[183] profundum Danuuium[184] bibunt
edicta rumpent Iulia, non Getae[185],
     non Seres[186] infidique Persae[187],
     non Tanain[188] prope flumen orti.

Nosque[189] et profestis lucibus[190] et sacris               25
inter iocosi munera Liberi
     cum prole matronisque nostris[191]
     rite deos prius adprecati,

uirtute functos[192] more patrum duces
Lydis remixto[193] carmine tibiis               
30
     Troiamque et Anchisen[194] et almae
     progeniem[195] Veneris canemus.

 

Febo, quando volevo cantare le battaglie

e le città sconfitte, esortò con la lira,

che non spiegassi le piccole vele attraverso

il mare Tirreno. Cesare, il tuo tempo

ha riportato ricche messi ai campi

e ha restituito al nostro Giove le bandiere

strappate agli arroganti stipiti dei Parti e, in assenza di guerre, chiuse il tempio di Giano Quirino e mise le briglie  all’istinto che sfuggiva a un giusto ordine e cancellò i peccati

e richiamò le antiche virtù

con le quali il nome dei Latini e le forze d’Italia crebbero in fama e la maestà dell’impero si è estesa da Occidente a Oriente.

Se Cesare è custode della cosa pubblica, nessun furore o violenza di guerre civili scaccerà la pace,

e neppure la collera che affila le spade

e rende nemiche città infelici.

Non coloro che bevono il Danubio profondo romperanno gli editti di Giulio, non i Geti, non i Seri e gli inaffidabili Persiani,

non i nati vicino al fiume Tanai.

E noi - nei giorni feriali e nei festivi,

fra i doni di Libero scherzoso,

con i nostri figli e le nostre mogli,

dopo aver pregato gli dei secondo il rito,

col canto misto ai flauti di Lidia, secondo le abitudini degli antenati – canteremo i condottieri valorosi, Troia, Anchise e la progenie dell’alma Venere.

 



[1] Vengono in mente almeno Mimnermo e Lorenzo de’ Medici.

[2] Come il Foscolo dei Sepolcri.

[4] L’aggettivo altus in latino significava profondo. Il mare profondo, infatti, nell’Eneide, è detto mare altum. Del resto anche in italiano usiamo con lo stesso significato l’espressione alto mare o neve alta.

[5] In enjambement col successivo Soracte.

[6] Gradevolissima questa personalizzazione dei boschi che vengono metaforicamente accostati agli esseri umani, entrambi spossati dal rigido inverno.

[7] Bellissima quest’immagine ossimorica dei fiumi che, a causa del freddo, rallentano il proprio corso fino a fermarsi. In latino constiterint indica appunto l’atto di chi arresta la propria marcia, mentre il termine flumen deriva dal verbo fluere, cioè scorrere, insomma il freddo è tale che anche ciò che per natura è mobile è costretto alla stasi.

[8] Si noti, in questa strofa, il continuo effetto di suspense dato dalla disposizione dei termini. Il primo verso finisce con candidum, che ha il suo sostantivo nel verso successivo; il secondo verso anticipa “che non riescono a sostenere il peso”, ma per sapere chi sia il soggetto dobbiamo attendere il verso successivo; allo stesso modo il terzo verso si chiude con un ablativo strumentale, ma per renderci conto della sua funzione, ancora una volta dobbiamo attendere. Qui l’arte di Orazio è già matura.

[9] Comparativo assoluto.

[10] Orazio definisce sabina l’anfora, mentre in realtà è sabino il vino. Questo scambio di concordanza a fini poetici è definito ipallage.

[11] Il soggetto a cui si rivolge Orazio è volutamente collocato nell’ultimo verso della strofe.

[12] Merum = puro. Solitamente i Greci e i Romani non bevevano vino puro, ma mescolato ad acqua. Si beveva vino puro solo quando ci si voleva ubriacare.

[13] Anfora a due manici da cui si mesceva il vino nelle singole coppe.

[14] Forma alternativa a straverunt, frequente in poesia per ragioni metriche

[15] Solita desinenza in –is per l’accusativo plurale di III declinazione.

[16] Solitamente l’imperativo negativo latino è costruito con il ne, dunque dovremmo avere ne quaesieris (che infatti si ritrova in un altro celebre carme oraziano), ma fuge quaerere è una perifrasi più forbita.

[17] Dulcis = dulces.

[18] In contrapposizione ossimorica col successivo canities. I due termini sono volutamente accostati da Orazio perché si tratta dei due poli tra cui si muove l’esistenza umana: l’età della giovinezza a cui è riservato il godimento della vita e la vecchiaia priva di gioie.

[19] In enjambement e forte iperbato con angulo che chiude il verso successivo.

[20] Monte a 30 km nord circa da Roma. Una delle caratteristiche della poesia di Orazio è la sua concretezza. Quest’ode è ripresa da un’ode del poeta greco Alceo, ma se la poesia greca tende a farsi astratta, a parlare per topoi, la poesia latina tende, invece, al particolare concreto, addirittura al nome del monte che il poeta sta guardando nel preciso momento dell’ispirazione.

[21] Questa prima strofa è dedicata al paesaggio esterno, mentre la successiva, per contrasto, è imperniata sulla descrizione dell’atmosfera interna: fuori il freddo invernale, emblematicamente simboleggiato dall’alto monte ricoperto da una spessa coltre di neve, dai rami degli alberi che, stanchi per il peso della neve, sono costretti a lasciarla cadere, e l’acqua dei fiumi è trasformata in ghiaccio.

[22] Questo nome greco è verosimilmente fittizio, in quanto significa, letteralmente, “signore della festa”, ciò non significa che sia fittizia l’occasione. Orazio si rivolge a un personaggio reale, certo un amico di cui sconosciamo il nome reale.

[23] Si tratta di un vino locale non particolarmente pregiato. Abbiamo qui un’altra caratteristica tipicamente oraziana, che ha fatto parlare di aurea mediocritas: il vero bene sta nelle cose semplici, non nel lusso e nella ricchezza. Orazio era circondato da amici potenti alle cui feste scorreva ben altro che il vino sabino, ma il nostro poeta preferisce un’atmosfera più semplice, fatta di beni poco lussuosi e di rapporti veri.

[24] Questa seconda strofa è, come già detto, dedicata alla descrizione dell’interno della casa del poeta: se l’esterno è il regno del freddo, questo è il regno del calore, ben simboleggiato dall’abbondante legna che ravviva il fuoco nel camino e dall’anfora da cui si mesce generosamente un vinello locale invecchiato da quattro anni.

[25] Questa terza strofa esalta la potenza degli dei (al cui intervento peraltro Orazio, da buon epicureo, probabilmente non credeva): il poeta immagina che i venti si diano battaglia nei cieli, facendo ribollire le acque del mare, ma la loro potenza è nulla paragonata a quella degli dei che in un istante possono abbatterli e creare un’istantanea immobilità. Come le prime due strofe anche questa e la successiva sono in aperto contrasto: qui la potenza inarrestabile degli dei, nella successiva la fragilità della condizione umana a cui, nella successione logica del carme, non resta altro che la gioia dell’istante.

[26] È il concetto del carpe diem, una delle idee portanti dell’ideologia oraziana. Solo gli dei possono conoscere il futuro, per noi uomini l’unica certezza è che arriverà la vecchiaia e la morte, perciò meglio godere la vita finché si è giovani, sfruttare al massimo ogni istante. Come? Facendo festa e amoreggiando con le ragazze.

[27] Il Campo è il Campo Marzio, luogo di incontro per gli antichi Romani, come le piazze citate immediatamente dopo.

[28] Felicissima questa immagine della ragazza che si è nascosta per non farsi trovare dal ragazzo a cui ha dato un appuntamento notturno, ma appena lo vede non riesce a trattenere un risolino che ne tradisce la posizione. A quel punto comincia una schermaglia perché il ragazzo vuole un pegno d’amore, un braccialetto o un anello; la ragazza rifiuta, lotta, ma solo per il gusto di essere vinta.

[29] Probabile nomen fictum, come il Taliarco dell’ode precedente, infatti Leuconoe, in greco, significa “mente chiara”, “intelletto leggero”, alludendo probabilmente all’ingenuità della ragazza che ancora crede agli oroscopi e alla possibilità di prevedere il futuro.

[31] In posizione enfatica, a rafforzare il valore del successivo divieto.

[32] Ne quaesieris: imperativo negativo, composto da ne e il perfetto congiuntivo.

[33] Nell’antico diritto latino il nefas è ciò che proibito dagli dei e dunque dev’essere proibito anche nella legislazione umana. Orazio non avrebbe potuto scegliere termine più significativo.

[34] L’anafora dell’aggettivo interrogativo sottolinea l’impossibilità di conoscere il futuro.

[35] Notevole quest’uso dei due pronomi personali, quasi che la ripetizione crei più intimità fra i due protagonisti rispetto al più sbrigativo “noi”.

[36] Perfetto congiuntivo, come richiesto dall’interrogativa indiretta.

[37] Al centro del verso, in posizione fortemente enfatica, come la Lesbia del carme V di Catullo.

[38] Forma sincopata per temptaveris, qui utilizzata per ragioni metriche.

[39] Calcoli, alludendo alle operazioni di tipo matematico che gli astronomi facevano per calcolare l’oroscopo.

[40] Frase ellittica del verbo est.

[41] Pluris = plures. Come sappiamo la forma in –is dell’accusativo plurale di III declinazione è di uso piuttosto frequente in poesia.

[42] Sineddoche. L’autore anziché dire che l’uomo non sa quanti anni gli rimangano da vivere, dice inverni, cioè usa la parte (la stagione) per il tutto (l’anno).

[43] In enjambement con il precedente mare.

[44] Congiuntivo esortativo, come i successivi liques e reseces, in contrasto con gli imperativi precedenti. Se è effettivamente impossibile conoscere il futuro e pertanto Orazio può usare l’imperativo per intimare a Leuconoe di non tentare di conoscerlo, data la precarietà della vita, vivere alla giornata bevendo vino e facendo l’amore non è l’unica soluzione possibile, tanto che gli Stoici ne prevedevano una affatto diversa: l’impegno sociale. Trattandosi di una libera scelta può essere energicamente suggerita da un congiuntivo esortativo, ma non imposta con un imperativo.

[45] Frase di dubbia traduzione letterale anche se il senso è chiaro. Orazio vuole dire che è inutile fare progetti a lunga scadenza, perché non siamo sicuri del momento della morte, meglio vivere istante per istante. Forse la metafora allude al gesto del sarto che taglia la stoffa; in questo caso si intenderebbe che bisogna tagliare la stoffa servendosi di una piccola unità di misura, insomma poco alla volta.

[46] Una delle immagini più riuscite di Orazio. Mentre stiamo parlando il tempo è già passato, non si può neppure completare una frase senza che il tempo ci sia fuggito di mano. Questo concetto della estrema e inesorabile fugacità del tempo è reso dalla temporale dum loquimur,- al presente perché in latino il presente è il tempo della continuità, un po’ come il present continuous in inglese – e dal futuro anteriore fugerit, come dire che il tempo sarà già fuggito via prima che finiamo di completare la frase.

[47] Sottinteso diei, giorno.

[48] Gli astronomi babilonesi, come quelli egiziani, erano fra i più apprezzati nel mondo antico. I Babilonesi, in particolare, erano noti per la capacità di elaborare precisi oroscopi. Teniamo presente, infatti, che per noi moderni l’astronomia è una scienza laica, mentre per gli antichi valeva il contrario; nell’ordine degli astri riconoscevano una volontà divina e partendo dalla data e dall’ora di nascita erano in grado di calcolare oroscopi personalizzati.

[49] In forte iperbato con laudas del v. 3, col quale costituisce una proposizione temporale.

[50] Bello e tremendo quest’accostamento iniziale fra il nome della sua amata, Lidia, e quello del ragazzo che lei gli preferisce e a causa del quale Orazio soffre, Telefo. In fondo, al momento, il rapporto è tutto loro, Orazio può solo offrire un consiglio esterno. Telefo, tra l’altro, è ripetuto anaforicamente nel secondo verso, sempre in clausola, cioè in fine di verso.

[51] Sentirsi impallidire di fronte alla persona amata è sempre stato caratteristico degli innamorati. Figuriamoci saperla fra le braccia di un altro.

[52] Mai complemento di moto a luogo fu più poetico.

[53] Sembra quasi che fra Orazio e Lidia ci sia un rapporto d’amicizia non interrotto nemmeno dall’amore che il poeta prova per lei. Lidia parla di Telefo, e nei termini in cui ne può parlare un’innamorata e un’amante, Orazio non riesce a trattenere le lacrime.

[54] Lentis … ignibus, complemento di causa efficiente dato che il verbo macerer è al passivo.

[55] A metà strada fra il valore passivo, sono bruciato (da questa situazione) e il valore mediale, mi brucio (cioè sono causa del mio male, perché non riesco a smettere di essere innamorato di questa donna).

[56] Forma sincopata per turpaverunt, come accade frequentemente in poesia per ragioni metriche.

[57] Etimologicamente in-modicae (modus = misura, equilibrio), cioè senza misura, senza fine.

[58] Telefo, evidentemente, non ha solo il collo come le rose e le braccia come la cera, così come vuole far credere Lidia che lo guarda con gli occhi dell’amore; è anche un ubriacone che a causa del vino (vino puro, mero, ablativo strumentale) va fuori di testa e picchia la sua donna, con braccia, evidentemente, dure come il legno, visti i segni delle botte che le lascia sulle spalle.

[59] In variatio rispetto al precedente seu (ci aspetteremmo un altro seu), verosimilmente per ragioni metriche.

[60] Con forma volutamente distante dal parlato, in cui si usava impressit.

[61] Memore per chi? Come dev’essere stato difficile per Orazio fare la spalla su cui Lidia piangeva, di ritorno da una lite col suo moroso, vedendo i segni della passionalità dell’altro su quella donna che non poteva dire sua.

[62] Com’è lontana questa formula di cortesia, quasi una preghiera sommessa, chiusa com’è dalle virgole in umile funzione di parentetica, dagli imperativi a cui ci aveva abituato negli altri componimenti. Si me satis audias = se tu volessi ascoltarmi un po’.

[63] Un altro contrasto ossimorico, fra i dolci baci (come sembrano a Lidia) e il modo selvaggio in cui vengono dati (selvaggi, incivili, cioè barbari sembrano invece a Orazio).

[64] Un grande amatore questo Telefo, i cui baci sono iperbolicamente resi dolci (seppure per un quinto) dalla dea dell’amore. L’iperbole, chiaramente, anche alla luce di quanto Orazio ha appena detto, è ironica.

[65] In posizione fortemente prolettica, come se volesse creare un attimo di sospensione nel lettore e farlo riflettere sul fatto che la vera felicità non è nella passione tutta istintiva come quella che caratterizza il rapporto fortemente fisico tra Lidia e Telefo, ma nell’amore, nella corrispondenza d’amorosi sensi, nell’affinità elettiva che dura una vita.

[66] Insieme al successivo suprema, sono i due aggettivi che rendono quest’ode poco oraziana. Orazio non è solo il poeta del carpe diem; o forse, proprio perché lo era stato nella vita, a un certo punto desidera l’amore vero, basta con le avventure di una sera, meglio un rapporto affettivo solido, una compagnia che duri tutta la vita.

[67] Forma arcaica per divulsus, da divello. Il fenomeno per cui il suono o si è chiuso in u (come divolsus – divulsus), si chiama oscuramento.

[68] Tutto l’opposto del carpe diem, qui Orazio inneggia all’amore che si costruisce giorno dopo giorno ed è scisso solo da un evento incontrollabile come la morte.

[69] Comparativo assoluto da cito, avverbio. Orazio vuole dire che quando finisce un amore vero è sempre troppo presto.

[70] Il chiasmo c’è già in latino nella sequenza cervicem roseam (sostantivo aggettivo) – cerea bracchia (aggettivo sostantivo).

[72] In posizione enfaticamente prolettica. Orazio vuole dire che la ricerca del lusso fra i ricchi romani del suo tempo è arrivata a un livello tale che rimarrà poco spazio per coltivare i terreni. Insomma, non sta solo criticando il desiderio di ricchezza e ostentazione, ma anche la stupidità di un atteggiamento, diremmo noi poco ecocompatibile,che porterà a conseguenze disastrose: mancando i terreni coltivabili, di cosa vivranno gli uomini?

[73] Lo iugero era un’unità romana di misura dei terreni; corrispondeva a circa 2.500 m2.

[74] Non è utilizzato a caso quest’aggettivo, in senso dispregiativo, dal repubblicano Orazio. Tra l’altro è in consonanza polemica col precedente iugera.

[75] Da notare che qui il poeta non usa il termine domus, ma il termine moles, in sé abbastanza generico, ma che poteva indicare una macchina da guerra, una diga, un vallo, insomma tutti oggetti dalle proporzioni ciclopiche, in evidente contrasto con l’esiguità dei terreni del primo verso.

[76] In forte iperbato con stagna del verso successivo, a tenere sospesa l’attenzione del lettore.

[77] Visentur è 3° pl. Indicativo futuro passivo da viso (frequentativo di video, nel nostro caso con forte valore mediale). In traduzione ho preferito renderlo con un verbo attivo, ma il latino è più pregnante, è come se Orazio dicesse: “si presenteranno continuamente alla vista”, a rimarcare la maestosità delle opere.

[78] Un lago campano, qui termine di paragone iperbolico.

[79] Lacu: ablativo, in comparatio compendiaria.

[80] Gli olmi venivano usati per fissarvi le viti, mentre i platani erano lasciati a sé, in questo senso erano celibi, non sposati. La metafora per noi desueta vuol dire che tra un po’, paradossalmente, gli alberi ornamentali saranno preferiti a quelli utili all’agricoltura, perché più utilizzati nei giardini delle ville. Come dire che si sta perdendo il senso delle cose.

[81] Letteralmente “campi di viole”.

[82] Metonimia: anziché dire “ogni genere di fiori profumati”, il poeta dice “ogni genere di profumi”.

[83] In quest’aggettivo si condensa tutta la carica polemica della contrapposizione oraziana fra il buon tempo antico in cui i Romani erano dediti all’agricoltura e perciò coltivavano piante utili, come l’olivo o gli olmi, e il tempo attuale in cui i ricchi proprietari preferiscono trasformare le antiche piantagioni in piscine e giardini megalussuosi con ogni varietà floreale solo per soddisfare il proprio gusto estetico.

[84] Un altro paragone iperbolico. La corona è di solito quella di fiori con cui ci si agghindava il capo, mentre qui è diventata una sorta di tetto di rami attraverso cui i raggi del sole non possono penetrare. Si allude qui, evidentemente a delle zone nei giardini delle ville, in cui la natura è stata violata (almeno dal punto di vista oraziano) solo per consentire ai ricchi delle passeggiate o dei momenti di relax liberi dalla canicola. Non più agricoltori cotti al sole, ma passeggiate nel boschetto ombroso privato.

[85] In forte iperbato con auspiciis di cui costituisce il complemento di specificazione. Romolo aveva stabilito un limite massimo alle estensioni di terreno, proprio per evitare la creazione di latifondi e che i Romani non si dedicassero alla coltivazione diretta dei propri terreni. Insomma aveva avviato un progetto di microimprenditorialità.

[86] Per evitare di perdere tempo, Catone, evitava addirittura di radersi, altro che passeggiate per i boschi ombrosi, piscine … e questo in accordo con la moda del buon tempo antico, anzi, pare che il primo Romano a usare il rasoio fosse stato Scipione l’Africano.

[87] Neutro sostantivato, come dire ”il bene comune”.

[88] La pertica decempeda era una misura di lunghezza equivalente a circa 3 metri. Orazio, cambiando metafora insiste ancora sul concetto del lusso e della ricchezza, affermando che i portici costruiti davanti alla ville moderne sono talmente grandiosi che per misurarli non basta un metro, ma occorre una unità di misura del tutto speciale. Portici così maestosi da riuscire a fare ombra con qualsiasi situazione di calura.

[89] Grecismo, “orsa” a indicare la costellazione dell’Orsa maggiore.

[90] In climax. Orazio che ha criticato per tutta l’ode il comportamento egoistico e megalomane dei ricchi della sua epoca, conclude ricordando che nei tempi antichi non era addirittura permesso nemmeno di usare pietre nuove se non per i tmepli degli dei, le altre dimore dovevano accontentarsi di qualsiasi tipo di materiale. Certo, un po’ anomalo per un epicureo utilizzare come argomento a proprio favore quello della religione, ma come abbiamo già visto, le idee di Orazio cambiarono col tempo.

[91] Mimesis in latino significa appunto imitazione. Esistono due fondamentali modalità narrative: diegetiche e mimetiche. Un racconto di definisce diegetico quando l’autore descrive i fatti e i dialoghi in terza persona, mentre si chiama mimetico quando l’autore sceglie di farci leggere i dialoghi dei personaggi così come si immagina siano avvenuti. Il segno grafico che ci fa riconoscere una descrizione mimetica sono le virgolette.

[93] In iperbato con iuuenis del verso seguente.

[94] Comparativo di maggioranza di cui è sottinteso il secondo termine di paragone “me”, migliore “di me”.

[95] In enjambement col successivo cervici.

[96] Secondo termine di paragone, in comparatio compendiaria.

[97] Lidia risponde riprendendo esattamente l’incipit di Orazio. Se il poeta l’aveva accusata di averlo lasciato per un altro, lei risponde polemica che non l’avrebbe mai fatto se lui non l’avesse tradita per primo.

[98] Probabilmente la stessa Lidia protagonista dell’ode I, 13.

[99] Accusativo con desinenza greca in –n.

[100] Altro nome di Rea Silvia, la madre di Romolo e Remo, qui citata come exemplum di donna famosa. Lidia ha ripreso all’inizio, rovesciandola, l’accusa di Orazio: non è stata lei a tradirlo; si sono traditi a vicenda. Riprende poi anche l’iperbole del poeta: se Orazio, quando aveva l’amore di Lidia si sentiva più felice del re di Persia, Lidia, quando aveva l’amore di Orazio, si sentiva più famosa della madre dei fondatori di Roma.

[101] Come se non fosse in potere del poeta liberarsi dal rapporto con quest’altra donna.

[102] Per dulces, accusativo plurale poetico, concordato con modos.

[103] Orazio, ha prima rimproverato a Lidia di averlo tradito e avergli rovinato la felicità. Ora la stuzzica esaltando le qualità della sua nuova compagna, brava cantante e musicista.

[104] Litote: non temerei = preferirei, sceglierei.

[105] Non solo “l’altra” ha delle notevoli qualità artistiche, ma per lei Orazio è disposto a dare la vita.

[106] Lidia, ancora una volta, risponde al poeta per le rime: Cloe fa innamorare Orazio con la musica e il canto? Calaide fa bruciare lei, tanto è passionale.

[107] Non solo Calaide fa bruciare Lidia, ma si tratta di una fiamma reciproca; insomma anche lei fa bruciare il suo amante. Ben gli sta a Orazio averla tradita e averla perduta.

[108] Città della Calabria, particolarmente famosa fra quelle della Magna Grecia.

[109] Orazio è disposto a morire per Cloe; Lidia sarebbe disposta a morire due volte per il suo uomo.

[110] La più pesante delle frecciate: Ornito è giovane, Orazio no.

[111] Sineddoche. In latino Venere, cioè il nome della divinità anziché il sentimento di cui la divinità è custode.

[112] Metafora tratta dal mondo agricolo: Orazio immagina se stesso e la propria donna come una coppia di buoi uniti indissolubilmente dallo stesso giogo, ma non uno qualsiasi, di legno come si usava all’epoca, bensì di bronzo, il materiale che si usava per le iscrizioni a cui si voleva garantire una durata plurisecolare.

[113] Dopo la metafora agreste, una di tipo domestico, intimo, la porta della casa di Orazio che si riapre per accogliere Lidia.

[114] Siamo in chiusura. Prima la lite, condita di insulti e poi di tentativi di suscitare la gelosia, infine, come ogni lite fra amanti che si rispetti, la rappacificazione: Orazio cede e chiede a Lidia di poter tornare a vivere insieme, lasciandole, galantemente, la chiusa del dialogo.

[115] Sebbene. La congiunzione concessiva è in posizione prolettica, quasi che Lidia, pur volendo tenere Orazio sulle spine, voglia fargli intuire che la risposta sarà positiva.

[116] Ablativo in comparatio compendiaria. Lidia non rinuncia alle ultime frecciatine.

[117] Il pronome personale è ritardato, enfaticamente. Da notare che mentre prima Lidia era stizzosa, adesso che il poeta le ha chiesto di mettere da parte i rancori, non cita più l’amante col nome proprio, ma con un generico “lui”.

[118] I due termini di confronto “ille” “tu”.

[119] Di nuovo l’ablativo in comparatio compendiaria. Lidia rimprovera a Orazio i repentini cambiamenti di umore paragonandoli al sughero, un legno leggero per natura.

[120] Anche Lidia ha il gusto per le metafore poetiche (si capisce perché a Orazio piacesse così tanto), se prima aveva rimproverato l’istintività, ora mette in rilievo la propensione all’ira, paragonandola con una metafora che certo il poeta avrà apprezzato, al mare in tempesta.

[121] Anafora, a sottolineare che Orazio potrà avere tutti i difetti del mondo, ma lei non vuole nessun altro.

[122] Quest’ultima frase è costruita con una sapiente variatio: “con te amerei vivere, con te” …  ci aspetteremmo amerei morire, mente Lidia ci sorprende con un “morirei volentieri”, poetica fino alla fine.

[123] Con un’iperbole, Orazio fa un complimento a Lidia: quando stavano insieme lui si sentiva l’uomo più felice della terra. Il re di Persia (l’odierno Iran) era spesso citato come esempio di ricchezza e di conseguenza, nella mentalità comune, felicità inimitabili. Orazio dà spazio a uno dei temi che più lo interessava, dimostrare che non è la ricchezza a dare la felicità, ma l’intima soddisfazione, contrapponendo, in questo caso, alla ricchezza un amore intenso.

[125] Solito ablativo in comparatio compendiaria. Orazio afferma che le sue poesie gli garantiranno una fama molto più duratura che se avesse ricevuto una statua (o comunque un monumento) di bronzo.

[126] Ipallage. Ci aspetteremmo che regali fosse concordato con pyramidum, mentre è concordato con situ. Regali, letteralmente, significa “da re”, ma ho preferito tradurre con faraoniche perché mi sembra rispetti maggiormente l’intenzione iperbolica oraziana.

[127] Altro ablativo in comparatio compendiaria.

[128] Una voluta iperbole. Se nel primo verso Orazio ha esaltato la propria poesia paragonandola (e ritenendola superiore) alle stature di bronzo, ora prende come riferimento una delle sette meraviglie del mondo antico, da sempre simbolo di potenza: le piramidi dei faraoni.

[129] Riferito a monumentum costituisce il complemento oggetto di diruere ed è in posizione prolettica per creare suspense nel lettore.

[130] Orazio spiega perché la poesia è più grande dei monumenti: perché è al sicuro dagli agenti atmosferici, nessuna pioggia, nessun vento potrà arrecare danno alla fama.

[131] Aquilone è il nome di un vento di nord est,  un vento freddo di tramontana utile come simbolo della capacità distruttiva a cui si sottrarrà la fama di Orazio, affidata com’è all’immaterialità della fama piuttosto che a oggetti concreti per quanto maestosi come le piramidi.

[132] In questo caso il prefisso –in non è utilizzato per negare il valore dell’aggettivo, ma per intensificarlo, non “impotente”, ma “prepotente”.

[133] Orazio non morirà omnis, cioè non morirà del tutto. Il suo corpo, inevitabilmente sarà distrutto dal tempo, mentre la sua poesia, cioè la proiezione dell’anima sua, quella, rimarrà in eterno.

[134] Non solo non morirà del tutto, ma è come se Orazio dicesse che la parte che si conserverà è la parte migliore, quella che vale di più.

[135] Dea dei funerali, qui utilizzata in sineddoche per “morte”.

[136] Qui utilizzato con valore iterativo; Orazio vuole dire, in pratica, che la sua fama crescerà incessantemente.

[137] Concordato con laude del verso seguente. Anche questa può essere intesa come ipallage, perché ci aspetteremmo il termine al caso genitivo plurale “posterorum”, la lode “dei posteri”.

[138] Notevole questa affermazione metaletteraria e si potrebbe darle ragione ricordando che Calvino affermava che un classico è un testo che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. Insomma Orazio non solo ha chiaro che la sua fama sarà eterna, ma anche che i suoi testi avranno sempre qualcosa di nuovo da dire alle future generazioni di lettori. Orazio non era solo un poeta, ma anche un fine critico letterario.

[139] Da buon romano di età augustea, anche Orazio sente fortemente il mito di Roma eterna, così collega l’eternità del mondo a quella della capitale dell’impero e ai suoi riti.

[140] Non sappiamo a quale rito in particolare si riferisca qui Orazio, ma l’immagine è chiara: il pontefice massimo sale il Campidoglio seguito da una vergine vestale in religioso silenzio. C’è chi ha pensato che qui tacita uirgine sia un singolare collettivo e che il pontefice fosse seguito da un coro di sacerdotesse silenziose, il che conferirebbe maggiore solennità all’immagine usata da Orazio.

[141] Le sacerdotesse di Vesta, esercitavano il loro ufficio per trent’anni (dai dieci ai quarant’anni di età). In questo periodo dovevano scrupolosamente evitare rapporti carnali che le “contaminassero” rendendole inidonee alla funzione. Per la vestale che contravveniva al voto di castità era prevista una delle pene più severe: veniva sepolta viva.

[142] Si tratta del pontifex maximus, la più importante carica religiosa romana, l’equivalente del nostro Papa.

[143] Costruzione personale di dicor.

[144] Avverbio di luogo.

[145] Oggi Ofanto, un torrente di Puglia. Proprio perché si tratta di un torrente, Orazio lo definisce uiolens e utilizza obstrepit per il suono che produce durante il suo corso.

[146] Avverbio di luogo come il precedente.

[147] Mitico re di Lucania, la patria di Orazio, qui simbolo stesso della terra, povera di acqua. Con questa lunga perifrasi Orazio sta indicando la propria patria, dicendo, in sostanza, che la Puglia sarà ricordata nei secoli come la terra che diede i natali a un così illustre poeta.

[148] In enjambement col precedente agrestium, in genitivo retto da regnauit, qui usato con la costruzione greca dei verbi di comando che vogliono il genitivo, laddove l’italiano moderno preferisce il complemento di termine (ordinare a qualcuno) e il latino preferiva la costruzione personale dei verbi iussivi (milites iussi sunt) o l’infinitiva (consul iubet milites exire e castris).

[149] Orazio, come ricorda lui stesso in Saturae I, 6,era di umili origini, in quanto figlio di un liberto (cioè di uno schiavo liberato). Eppure, nonostante l’umiltà delle origini, dice Orazio, egli è stato in grado di cambiare il volto della poesia latina, introducendovi i metri e i temi della poesia greca colta. Sembra qui di ritrovare qualche accento degli stilnovisti, quando contrapponevano la nobiltà del cuore alla nobiltà dei natali. Qui Orazio contrappone alla nobiltà di nascita la nobiltà del merito letterario.

[150] Per primo. Con lo stesso valore il termine princeps si ritrova nell’espressione princeps senatus, con cui si indicava il senatore che votava per primo in assemblea (in età repubblicana questa prerogativa spettava al senatore in carica più anziano, mentre ai tempi di Orazio era ormai stabilmente detenuta da Augusto).

[151] In realtà anche Catullo aveva usato metri della lirica eolica, ma certamente il poeta che le fece diventare sistema nella sua produzione fu Orazio. Qui la poesia eolica, quella di Saffo ed Alceo soprattutto, è intesa come la più elevata ed importante.

[152] In enjambement con Italos del verso precedente, è il riconoscimento che Orazio fa a se stesso di aver rinnovato la Letteratura latina.

[153] Utilizzato qui non in senso negativo, ma intendendo il desiderio di Orazio di elevare la propria condizione.

[154] Ancora una volta il poeta sottolinea di aver cercato la fama con i propri meriti e non con le amicizie dovute alla nobile nascita.

[155] In enjambement col successivo lauro. Nell’isola di Delfi si trovava uno dei templi più famosi di Apollo, il dio della poesia cui era consacrata la pianta dell’alloro, non a caso utilizzata per adornare il capo dei poeti ritenuti particolarmente illustri. Un uso non solo antico, basti pensare all’incoronazione laureata di Petrarca.

[156] Volentieri, benigna.

[157] La musa della tragedia, ma qui utilizzata come simbolo della poesia alta in genere. Nella teoria antica dei generi letterari, ad ogni soggetto doveva corrispondere un determinato tipo di linguaggio. Ai soggetti tragici era associato il linguaggio elevato, sublime. Così Orazio sceglie Melpomene perché vuole sottolineare il carattere colto della propria produzione poetica.

[159] Il nome latino del dio Apollo, in enjambement e iperbato con increpuit del verso successivo.

[160] Anastrofe per “et uictas urbes”.

[161] In enjambement con vela del verso successivo. L’immagine della barca che possiede vele troppo piccole per tentare la navigazione su un mare grande e minaccioso come il mare Tirreno, serve a dire, metaforicamente, che la poesia di Orazio non è adatta a cantare le grandi gesta proprie del racconto epico.

[162] Iperbolico, quasi che Ottaviano sia la Storia. La personalizzazione della vita politica era già iniziata ai tempi di Mario, ma qui raggiunge il suo vertice. Non a caso quando Svetonio scriverà le sue Biografie degli imperatori, ritaglierà la cronologia mondiale sulla vita degli imperatori, infrangendo una consuetudine storiografica antichissima, risalente agli Annales Pontificum, che voleva i fatti raccontati nell’esatta sequenza cronologica, anno dopo anno; per avere un’idea è come se i telegiornali anziché dire che “siamo nel 2009”, dicessero che “siamo nel primo anno dell’era Obama”. Avremmo sacralizzato il leader. Esattamente questo facevano i Romani, non per nulla, dopo la morte di Augusto lo dichiareranno dio e gli dedicheranno templi e preghiere.

[163] Propriamente il cognomen di Caio Giulio Cesare, ma già al tempo di Orazio era passato a significare una carica politica, quella ricoperta dal princeps. In questo caso il poeta si riferisce ad Augusto.

[164] In anastrofe, correlato con et del verso successivo.

[165] Dativo di vantaggio, quasi che i campi siano personificati e godano in prima persona della pace riportata da Augusto.

[166] Perfetto da refero (con geminatio della –t) e il re- non è indifferente. Veramente Augusto fu visto dai suoi contemporanei come un liberatore d’eccezione, infatti era dal tempo di Mario e Silla che l’Europa veniva insanguinata dalle guerre civili fra i signori della guerra e solo con lui che, in un modo o nell’altro, si arrivò a una pacificazione di fatto. Non per nulla gli scrittori dell’età di Orazio e Virgilio, cioè quelli che avevano vissuto sulla propria pelle la tragedia delle guerre, esaltarono Ottaviano, e fu solo con scrittori posteriori, come Lucano, che il principato fu visto come il peggiore dei mali sociali, perché aveva privato i cittadini dell’esercizio della democrazia. Questi ultimi scrittori non avevano mai vissuto la guerra civile in prima persona, perciò del principato notavano solo gli aspetti liberticidi, mentre per Orazio, più della repressione (che pure ci fu anche sotto Augusto) contava l’aver ri-portato la pace.

[167] Anche questo verbo sottolinea il valore provvidenziale di Augusto che riporta l’ordine naturale nel mondo: ridà ai campi la possibilità naturale di germogliare e produrre frutti, restituisce ai Romani le insegne che i Parti avevano conquistato in una delle peggiori sconfitte che gli eserciti di Roma avessero subito dai tempi delle guerre puniche, la battaglia di Carre in cui venne addirittura ucciso il comandante in capo, Crasso.

[168] Sineddoche, la divinità al posto dell’oggetto concreto ad essa consacrata: le insegne non furono ovviamente restituite al dio Giove, ma al tempio a lui dedicato (il tempio di Giove Feretrio, il più antico di Roma, fondato, secondo la tradizione, da Romolo stesso).

[169] Qui Orazio si fa portavoce della propaganda. In effetti questo verbo è esagerato, Augusto non strappò le insegne ai nemici, ma le ebbe restituite a seguito di un accordo politico. A quel tempo, infatti, progettava l’invasione della Germania, perciò voleva assicurarsi la stabilità del confine orientale; dunque agì per vie diplomatiche e nel 17 a. C., a sigillo dell’intervenuto accordo, Fraate IV, re dei Parti, gli restituì le insegne strappate (queste sì) quarant’anni prima.

[170] Qui, evidentemente, con significato spregiativo. Si noti l’ipallage, per cui superbis è concordato con postibus piuttosto che con Parthorum. Ovviamente sono i Parti a essere arroganti e non gli stipiti, eppure la figura retorica acuisce il concetto oraziano portandolo all’iperbole, quasi che l’arroganza di questo popolo fosse tale che anche gli stipiti delle loro porte ne sono contagiati.

[171] Uacuum duelli = privo di guerre, dove uacuum, è concordato con Ianum e duellis è forma arcaica di bellis, che Orazio preferisce per dare maggiore solennità al concetto.

[172] Le porte del tempio di Giano Quirino venivano chiuse in tempio di pace e aperte in tempo di guerra. Orazio insiste sulla pacificazione portata da Augusto, ricordandone anche i gesti solenni che l’avevano ufficializzata.

[173] Un argomento stoico in bocca a un epicureo. Secondo gli Stoici esiste un ordine cosmico che all’uomo non è dato violare. Garante di quest’ordine è la Pronoia, la Provvidenza, che guida la storia nel modo migliore possibile. Qui Ottaviano è presentato come l’uomo della Provvidenza, quasi una sua ipostasi.

[174] Personalizzazione dell’istinto, quasi fosse un cavallo allo stato brado che si ribella, invano, al suo domatore.

[175] Ancora un’immagine a variare il leitmotiv di quest’ode: la divina capacità di Augusto di aver restaurato l’ordine mondiale. Qui Augusto è immaginato come un cavaliere che pone le briglie a un cavallo particolarmente ribelle e lo guida sul giusto sentiero.

[176] L’istinto, contrapposto alla razionalità portata da Augusto.

[177] Verosimilmente qui il poeta si riferisce alla legislazione moralizzatrice di Augusto. I tempi di Orazio erano molto simili ai nostri, con divorzi frequenti, famiglie allargate, molti(/e) single e pochi figli. Augusto tentò di mettere un ordine anche a questa situazione incentivando la procreazione di almeno tre figli all’interno di coppie stabili rigorosamente eterosessuali, punì severamente l’adulterio … Certo, suona strano e a prima vista contraddittorio che si erga a difensore della moralità augustea proprio Orazio che non si sposò mai, non ebbe figli, e non disdegnò rapporti omosessuali, ma non bisogna dimenticare che nelle Satire (basti leggere la I, 2) egli tuona fragorosamente contro gli adulteri, affermando recisamente che le avventure galanti sono certo permesse, ma con liberte o con prostitute. Orazio aveva lottato per il mantenimento della Repubblica, non aveva mai infangato il nome di una matrona … insomma, a suo modo, era effettivamente un moralista.

[178] Qui nel senso di abitudini virtuose, comportamenti corretti, in contrapposizione al precedente culpas. Le buone abitudini sono personificate, quasi che, sdegnate, avessero abbandonato in volontario esilio il suolo italico e fossero adesso tornate al richiamo di Ottaviano. Insomma, grazie ad Augusto i Romani sono tornati quelli del buon tempo antico che da una piccola città erano riusciti a creare un impero universale.

[179] In climax: Lazio, Italia, mondo, seguendo il percorso di sviluppo dell’impero.

[180] Letteralmente “le nascite” del Sole, dato che il Sole nasce ogni giorno; qui indica il punto geografico più a Oriente. Orazio, dopo aver lodato l’opera pacificatrice e moralizzatrice di Augusto ne sta ora vantando l’universalità.

[181] Dato che l’Italia si trova a Occidente (Esperia, cioè terre occidentali, la chiamavano i Greci), il movimento indicato da Orazio è corretto: dall’estremo Occidente (ab Hesperio cubili) l’impero di Roma si è esteso fino all’estremo Oriente (ad ortus solis). In verità, questa affermazione è esagerata; l’impero romano dei suoi tempi era sì molto vasto, estendendosi dall’attuale Portogallo al Medio Oriente, ma il suo limite orientale era costituito proprio da quei Parti che avevano strappato le insegne a Crasso, cioè dall’Iran moderno. E certo Orazio sapeva bene che il mondo non finiva in Iran, dato che già Alessandro Magno aveva tentato la conquista dell’India e aveva saputo di popoli che vivevano ancora più a est. Anche in questo caso il nostro si dimostra intellettuale organico alla propaganda imperiale.

[182] Custode … Cesare: ablativo assoluto con ellissi del verbo essere. Il participio del verbo essere è sempre sottinteso nella lingua classica e fa la sua comparsa a partire dal I sec. d. C. quando viene usata la forma ens, entis, “l’essere”, sul modello della lingua greca, in cui il participio del verbi εἰμί (= sum) veniva usato con analogo significato filosofico. Da notare come Orazio centellini le parole, utilizzando qui non a caso il termine custode, come se Augusto non fosse il generale vittorioso che ha imposto con la forza delle armi la pace agli avversari sconfitti e instaurato una monarchia di fatto, ma fosse il custode di un gregge altrimenti disperso e senza requie. La stessa solerzia comunicativa era sottesa a tutta la politica augustea, basti pensare che al momento della guerra con Antonio, il Senato, con ardita acrobazia legislativa, dichiarò guerra all’incolpevole Cleopatra, mascherando così da guerra contro lo straniero quella che, in realtà era una resa dei conti interna e, senza mezzi termini, una guerra civile.

[183] Dopo aver assicurato i concittadini rispetto al pericolo di una nuova guerra civile, Orazio sgombra il campo dal pericolo di una guerra scatenata da popoli stranieri.

[184] I popoli germanici stanziati nel bacino superiore del Danubio.

[185] I Geti, nome con cui gli scrittori romani indicavano gli abitanti della Dacia, l’odierna Romania.

[186] Col termine Seri si indica una popolazione per noi oggi sconosciuta. Alcuni studiosi sostengono si tratti dei Cinesi con cui si commerciava la seta (l’aggettivo serico significa appunto “relativo alla seta” e ha una chiara analogia col nome del popolo), ma un’affermazione di Plinio il vecchio descrive i Seri come alti, biondi e dagli occhi celesti. Oggi si ritiene fosse una popolazione indoeuropea stanziata a nord dell’Himalaya.

[187] I Parti, definiti sempre inaffidabili, traditori dalla pubblicistica romana.

[188] Accusativo in –n come in greco. Tanai è l’antico nome del Don, i nati vicino al Don sono gli Sciti.

[189] Soggetto in fortissimo iperbato con canemus, ultimo verso, quasi che tra questi due termini Orazio volesse racchiudere tutto il significato dell’ode stessa.

[190] Sineddoche per “giorni”.

[191] Il quadretto idealizzato della famiglia romana perfetta: pater familias, intimo delle mura domestiche, sposa legittima e i numerosi figli, tutti insieme (nos canemus, noi, cioè noi tutti) si leva il canto di preghiera agli dei, e subito le gesta dei grandi condottieri e di Augusto il pacificatore.

[192] Da fungor, regge l’ablativo uirtute e significa letteralmente “che hanno compiuto il dovere imposto dalla virtù”.

[193] Neologismo oraziano.

[194] Altro accusativo in –n con desinenza di tipo greco.

[195] Augusto, discendente di Venere in quanto appartenente alla gens Iulia. Orazio, dopo aver iperbolicamente lodato Augusto come il restauratore della pace universale, dentro e fuori Roma, dentro e fuori le coscienze dei Romani, conclude invitando se stesso e tutti i Romani a cantare le lodi dell’uomo della Provvidenza, tutti i giorni dell’anno, sia feriali che festivi, alla maniera tradizionale, non dimenticando che Augusto non è un homo novus, ma appartiene alla più nobile delle famiglie, discendente di Anchise e Venere, di quella stirpe troiana che con i pronipoti di Enea fondò Roma.