Nel 60 a. C. avviene un altro atto rivoluzionario.

Tre uomini particolarmente potenti stipulano un accordo segreto per diventare, di fatto, i padroni di Roma e deciderne la politica.

Si trattava di Cesare, Pompeo e Crasso.

 

Cesare era il leader dei populares, il gruppo politico vicino ai cavalieri che a suo tempo erano stati dalla parte di Mario. Aveva grandi ambizioni e voleva farsi spazio in fretta.

 

Pompeo era più vicino agli ambienti senatori, generale di fama mondiale, politico deciso che risolveva le situazioni in tempi rapidi: ne aveva dato prova contro le ultime resistenze mariane in Spagna, contri i pirati e Mitridate in Asia. Ma proprio per i successi e la grande fama che ne aveva acquistato preoccupò il senato che negò l’assegnazione di terre ai suoi soldati, creandogli un forte problema di credibilità. [1]

 

Crasso era l’uomo più ricco di Roma, una sorta di banchiere di grosso livello che aveva costruito il suo impero economico al tempo delle proscrizioni sillane, gestendo in maniera truffaldina le vendite all’asta dei beni confiscati ai proscritti. Dalla sua parte stavano i pubblicani, i gruppi di affari che gestivano la riscossione delle tasse nelle province. Questi gruppi volevano nuove conquiste militari in modo da aumentare i profitti.

 

Dunque questi tre uomini si misero d’accordo per truccare le elezioni: Cesare le avrebbe vinte divenendo console e facendo votare provvedimenti favorevoli agli altri due, i quali in cambio avrebbero favorito l’assegnazione a Cesare del proconsolato in Gallia, quando fosse finito il suo consolato.

 

L’accordo funzionò.

Cesare fu eletto effettivamente console e fece votare l’assegnazione di terre per i veterani di Pompeo.[2]

Per fare questo si servì dei comizi plebei, scavalcando tout court il Senato.

Fece poi votare un provvedimento con cui si abbatteva del 30 %  il costo degli appalti per i pubblicani, un bel regalo agli ambienti lobbisti vicini a Crasso.

 

Ormai la politica non era più decisa dalle assemblee, dalle elezioni democratiche, dalle magistrature tradizionali, ma dal potere personale dei leader politici e militari.



[1] A quel tempo a Roma c’era un grossa crisi e una forte inflazione, perciò i militari non volevano essere pagati in denaro, ma con distribuzioni di terre. Il denaro avrebbe perso in fretta il proprio potere d’acquisto, mentre il terreno non solo avrebbe mantenuto il proprio valore, ma lo avrebbe rivalutato e sarebbe stato fonte di guadagno se adeguatamente coltivato.

[2] Ma anche alla plebe, guadagnando così consenso anche per la sua parte politica di cui ormai si proponeva come leader indiscusso.