Alla fine delle guerre puniche, Roma si trovava ad essere padrona di un impero.

Tutto il Mediterraneo settentrionale era nella sua sfera di influenza: gli attuali stati di Portogallo, Spagna, Italia, gli stati della ex Jugoslavia, la Grecia e la Turchia erano tutti sotto il suo diretto controllo e l’ombra di Roma si stava rapidamente allargando a est verso la Siria e a sud verso la Libia e l’Egitto.

La Tunisia, poi, l’ex protettorato di Cartagine, era già una provincia romana a tutti gli effetti.

 

Una delle prima conseguenze di questa espansione fu lo sfruttamento intensivo della manodopera schiavile nei latifondi.

Accadde esattamente ciò che avverrà dopo la scoperta dell’America: la creazione di enormi appezzamenti di terreno, destinati alla produzione dei beni richiesti dal mercato, in cui si utilizzano come contadini degli schiavi.

È ovvio che se l’imprenditore acquista a un prezzo d’occasione i terreni e non deve pagare i salari agli operai, può permettersi di vendere i prodotti a un prezzo basso e sbaragliare la concorrenza.

 

I Romani non furono solo dei bravi conquistatori, ma soprattutto abili imprenditori, organizzati in lobby potentissime che utilizzavano le armi di Roma per estendere i propri volumi di affari e i conseguenti profitti.

 

Del resto, la storia è fatta di corsi e ricorsi e, con le opportune differenze, non è molto diverso ciò che accade ai nostri giorni.

Una delle parole d’ordine degli imprenditori oggi è “delocalizzare”, cioè spostare la produzione in paesi in cui il costo della manodopera sia più basso, meno pressanti le rivendicazioni sindacali, più snelle le procedure burocratiche.

È noto il caso dell’imprenditore italiano [1] che inizia l’iter per aprire un’azienda e, dopo quaranta giorni, deve ancora avere il permesso per iniziare i lavori.

Va in Cina, in quaranta giorni gli consegnano l’azienda pronta per iniziare la produzione.

Non è una differenza di poco conto.

 

Un operaio cinese guadagna, in media, 30 dollari al mese, cioè circa 20 euro[2].

Un operaio occidentale, guadagna, in media, 1200 euro al mese, ma costa all’azienda molto di più in contributi, per un totale diciamo sui 1700 euro.

1700-20=1680

Un imprenditore che decida di produrre in Cina risparmia circa 1680 euro al mese per ciascun operaio, moltiplicatelo per il numero degli operai, per 12 mesi …

Si parla di milioni e milioni di euro.

 

Un operaio cinese arriva a lavorare anche 100 ore a settimana, cioè più di 14 ore al giorno.

Per noi sarebbe sfruttamento, in Cina è la normalità, hanno il culto taoista[3] del lavoro e provengono da situazioni di miseria così tragica che preferiscono vivere in azienda pur di avere vitto e alloggio garantito.

 

Avete mai sentito parlare di uno sciopero in un’azienda cinese o coreana?

La produzione non si ferma mai, i collegamenti viari e aerei sono all’avanguardia …

Per gli imprenditori queste zone del mondo rappresentano un’occasione unica.

 

Per gli imprenditori.

Ma per i piccoli e medi produttori italiani o francesi?

Beh, è sotto gli occhi di tutti noi la quantità di negozi che chiudono proprio a causa della concorrenza di prodotti made in china e, all’inverso, la proliferazione nelle nostre città di negozi gestiti direttamente da cinesi.

Fallimenti, conseguente disoccupazione, alti costi per il welfare state, proteste dei lavoratori, nascita di partiti xenofobi …

 

Non era diversa la situazione nel II sec. a. C.

I piccoli imprenditori non potevano reggere la concorrenza delle multinazionali di allora.

Molti di loro, per di più, erano stati costretti ad arruolarsi per partecipare alle guerre e non avevano potuto seguire da vicino i propri affari, trovando, al ritorno, situazioni disperate.

I fallimenti di aziende agricole piccole e medie furono tanti, talmente numerosi da diventare un problema sociale di non poco conto.

Costretti a vendere i propri terreni (che andavano ad aumentare le dimensioni dei già vasti latifondi senatoriali) i pater familias si riversavano nelle città alla ricerca di distribuzioni gratuite di grano (il sussidio di disoccupazione di quei tempi) e lavoro salariato. Da proprietari di aziende diventavano operai, con conseguente perdita, nel lungo periodo, di capacità imprenditoriali diffuse e di concorrenzialità del sistema paese [4].

 

Ma nel mondo romano il problema era ancora più grave, perché per essere reclutati nell’esercito bisognava avere un reddito dimostrato, dato che i cittadini-soldati dovevano armarsi e mantenersi a proprie spese.

I disoccupati (proletarii, come si chiamavano allora, perché la loro unica ricchezza era la prole, i figli), non potevano far parte dell’esercito, proprio nel momento in cui Roma aveva più bisogno di militari da inviare nelle missioni di peakeeping [5] internazionali.

 

Risolvere alle radici il problema del proletariato urbano era dunque nell’interesse dell’intera nazione, ma le uniche proposte in tal senso mettevano in discussione i privilegi acquisiti dalla casta dei senatori, perciò finirono in un bagno di sangue.

 



[1] Citato da F. Rampini, in L’impero di Cindia.

[2] Cambio pari a 1,4773 del 22 settembre 2009.

[3] Recentemente è stato pubblicato un libro dal titolo interessante: Il Tao e Aristotele. Affronta le profonde differenze culturali che fanno della nostra e della società cinese due mondi a sé.

[4] Già nel I sec. d. C., le aziende italiane, anche di grossa entità, perderanno terreno nei confronti delle aziende francesi e spagnole; significativa è, da questo punto di vista, l’elezione a imperatore prima di Traiano e poi di Adriano, entrambi spagnoli, a dimostrazione della potenza economica e politica  acquisita da questa provincia.

[5] Ufficialmente Roma non fece mai guerre di aggressione, ma sempre difensive e al solo scopo di esportare la pax romana.

La crisi delle piccole e medie imprese d
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